IL CASO DELLE DONNE ITALIANE
STUPRATE
DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE
AL CENTRO DI NUOVE RICERCHE
La ciociara e le altre
di Giovanni De Luna Vennero
a combattere in Italia da tutti gli angoli del mondo: americani,
francesi, inglesi, tedeschi, neozelandesi, indiani, polacchi,
senegalesi, marocchini, algerini, tunisini, nepalesi, ecc…. Per
quasi due anni, dal luglio del 1943 al maggio 1945, subimmo una
durissima legge del contrappasso: il fascismo che aveva inseguito i
suoi deliri imperiali in terre lontane, portò la guerra
sull’uscio delle nostre case, in un turbinio di stragi naziste (15
mila vittime civili), bombardamenti (65 mila vittime civili),
rappresaglie, battaglie campali. Invasori, liberatori, occupanti,
comunque si chiamassero, le truppe straniere guardarono all’Italia
come a un paese vinto. E si comportarono di conseguenza. Si
materializzò così l’incubo delle violenze e degli stupri,
l’altra faccia della «guerra al femminile». Anni fa, un bel
libro curato di Anna Bravo, (Donne e uomini nelle guerre mondiali,
Laterza, 1991) ospitava un saggio di Ernesto Galli della Loggia che
utilizzava quell’espressione per indicare nella seconda guerra
mondiale una straordinaria occasione di protagonismo per le donne,
chiamate a interpretare ruoli inediti (per esempio sul lavoro), a
svolgere compiti difficili, con il peso sulle spalle della salvezza
dei propri uomini e della sopravvivenza delle proprie famiglie. Il
lato oscuro di questa visibilità fu l’ondata di violenza di cui
furono vittime.
Lo spiega bene un libro più recente (Donne guerra e politica, a
cura di D.Gagliani, E. Guerra. L.Mariani e F.Tarozzi, Clueb, 2001):
gli stupri diventano per gli eserciti vittoriosi l’occasione per
l’esercizio di un potere anche simbolicamente straripante, in
grado di espropriare gli sconfitti non solo della loro dimensione
pubblica (il loro Stato, il loro territorio nazionale) ma anche di
quella privata, penetrando nelle loro case, squarciandone gli
interni domestici, spezzandone i legami di cittadinanza insieme a
quelli familiari e parentali.
Tra il 1943 e il 1945 sulle donne italiane si scatenarono violenze
di tutti i tipi e su tutti i fronti: sulla «linea gotica», i
tedeschi infierirono soprattutto nei dintorni di Marzabotto, quasi a
voler reiterare la strage in altre forme (Dianella Gagliani, La
guerra totale e civile: il contesto, la violenza e il nodo della
politica ); sull’appennino ligure-piemontese, nel 1944, in sei
mesi, si registraroono 262 casi di stupro ad opera dei «mongoli»
(i disertori dell’Asia sovietica arruolati nell’esercito
tedesco). Ma niente può eguagliare l’orrore che investì le
«marocchinate»: è una brutta parola, ma allora la usavano tutti e
si capiva subito di cosa si parlava.
Nel 1960, Vittorio De Sica ne immortalò le sofferenze in un film
che valse l’Oscar a Sofia Loren. La ciociara era tratto da un
romanzo di Alberto Moravia. Paradossalmente, mentre il cinema e la
letteratura trovarono subito i modi per raccontare le scene che si
svolsero allora nelle terre in cui, a combattere i tedeschi,
arrivarono le truppe delle colonie francesi (non solo marocchini, ma
anche tunisini, algerini, ecc...), gli storici furono come bloccati,
lasciando praticamente sguarnita di studi e ricerche quella pagina
dolorosa della nostra storia.
A rompere questo inquietante silenzio è ora un libro appena uscito
in Francia e di prossima pubblicazione anche nella sua traduzione
italiana: Jean-Christophe Notin, La campagne d’Italie. Les
victoires oublièes de la France, 1943-1945, Perrin, 2002. In
realtà, come si capisce immediatamente dal titolo, a Notin preme
soprattutto indicare nella campagna d’Italia, «l’occasione per
la Francia di provare agli Alleati, ma anche a se stessa, che
continuava a essere una grande nazione». Grazie al loro impegno a
Cassino, nei furibondi combattimenti che si accesero sulla «linea
Gustav», i francesi riuscirono a riconquistare la stima degli
angloamericani, facendo dimenticare l’ignavia della capitolazione
del giugno del 1940, il collaborazionismo di Vichy, le ambiguità di
Giraud e delle truppe rimaste nell’Africa del Nord. E alla fine
vennero premiati: il trattato di pace del 1947 sancì una rettifica
delle frontiere alpine con l’Italia che assegnò alla Francia uno
spicchio di territorio pari a 709 chilometri quadrati. Pochi, ma
come sottolinea Notin, anche l’unico ingrandimento territoriale
conquistato in guerra dalla Francia in tutto il Novecento!
I 130 mila francesi furono schierati sul fianco sinistro della V°
Armata americana e subito scaraventati al fronte, nella fornace
ardente di Cassino. E furono proprio i soldati agli ordini del
generale Juin i primi a sfondare, il 13 maggio 1944, i capisaldi
della linea Gustav. Poi, «la furia francese» (nel libro viene
usato proprio questo termine) rotolò lungo la valle del Liri,
sconvolse il frusinate, proseguì verso Nord, verso Roma, verso la
Toscana e lì si fermò. Nell’agosto del 1944, dopo lo sbarco
alleato sulle coste della Provenza, le truppe di Juin furono
richiamate in patria. Alle loro spalle lasciarono ben 7485 caduti ma
anche una scia di lagrime.
Per Notin i «marocchini» non si arruolarono per patriottismo ma
per altre ragioni: la prospettiva di un salario sicuro, la
possibilità di acquistare prestigio guerriero, la fedeltà ai loro
clan. Non erano solo «marocchini» ma provenivano da tutte le
popolazioni più povere del Maghreb, gente di montagna, analfabeti
nei cui confronti gli ufficiali francesi dovevano essere di volta in
volta padri, saggi consiglieri spirituali, capi tribù. Le loro
figure intabarrate nei mantelli marrone (burnous), i pugnali alla
cintura, le voci di sgozzamenti notturni, di orecchie e nasi mozzati
ai nemici, alimentavano una fama da incubo ancestrale.
Se dobbiamo credere a Notin, andavano all’attacco salmodiando la
Chahada, («la Allah illah Allah! Mohammed Rassoul Allah!»),
catturavano i tedeschi per rivenderli (500-600 franchi per un
soldato semplice, il triplo per un ufficiale superiore) ai militari
americani desiderosi di costruirsi una reputazione guerriera senza
rischiare. La prima notizia di un loro stupro è dell’11 dicembre
1943; si tratta di 4 casi che coinvolgevano - secondo fonti
americane - i soldati della 573° compagnia comandata da un
sottotente francese «che sembrava incapace di controllarli». Notin
annota: «sono i primi echi di comportamenti reali, o più spesso
immaginari, di cui saranno accusati i marocchini».
Tanto immaginari però non dovevano essere se, già nel marzo 1944,
De Gaulle, durante la sua prima visita al fronte italiano, parla di
rimpatriare i goums ( o goumiers, come venivano chiamati) in Marocco
e impegnarli solo per compiti di ordine pubblico. In quello stesso
mese gli ufficiali francesi chiesero insistentemente di rafforzare
il contingente di prostitue al seguito delle le truppe nordafricane:
occorreva ingaggiare 300 marocchine e 150 algerine; ne arrivarono
solo 171, marocchine. Dopo lo sfondamento della linea Gustav, la
«furia francese» travolse soprattutto il paesino di Esperia, che
aveva come unica colpa quella di essere stato sede del quartier
generale della 71° divisione tedesca. Tra il 15 e il 17 maggio
oltre 600 donne furono violentate; identica sorte subirono anche
numerosi uomini e lo stesso parroco del paese. Il 17 maggio, i
soldati americani che passavano da Spigno sentirono le urla
disperate delle donne violentate: al sergente Mc Cormick che
chiedeva cosa fare, il sottotenente Buzick rispose: «credo che
stiano facendo quello che gli italiani hanno fatto in Africa». Ma
gli alleati erano sinceramente scandalizzati: un rapporto inglese
parlava di donne e ragazze, adolescenti e fanciulli stuprati per
strada, di prigionieri sodomizzati, di ufficiali evirati. Pio XII
sollecitò (il 18 giugno) De Gaulle in questo senso, ricevendone una
risposta accorata accompagnata da un’ira profonda che si riversò
sul generale Guillaume, capo dei «marocchini».
Si mosse la magistratura militare francese: fino al 1945 furono
avviati 160 procedimenti giudiziari che riguardavano 360 individui;
ci furono condanne a morte e ai lavori forzati. A queste cifre
sicure occorre aggiungere il numero, sconosciuto, di quanti furono
colti sul fatto e fucilati immediatamente (15 «marocchini» solo il
26 giugno).
Si tratta comunque di alcune centinaia di casi. Le fonti italiane
danno cifre molto diverse. Una ricerca in merito (Vania Chiurlotto,
Donne come noi. Marocchinate, 1944-Bosniache, in DWF, n.17, 1993)
parla di 60 mila donne stuprate. Un numero enorme, spaventoso.
Fu proprio a Esperia che nacquero le prime voci sulla «carta
bianca». Come premio per aver sfondato la linea Gustav, gli
ufficiali francesi avrebbero concesso 24 ore in cui tutto era
permesso. Notin smentisce con forza. Resta il fatto che la
disposizione dei francesi nei nostri confronti non era delle
migliori: nessuno aveva dimenticato la pugnalata alle spalle del 10
giugno 1940, il bombardamento di Blois senza necessità militari, i
mitragliamenti delle colonne di rifugiati a sud della Loira.
Però pur ammettendo una certa riluttanza delle autorità francesi
nel punire le violenze, la disparità con le cifre di parte italiana
resta enorme. I nostri dati si fondano sulle 60 mila richieste di
indennizzo presentate dalle donne italiane. I francesi pagarono da
un minimo di 30 mila a un massimo di 150 mila fino al 1 agosto 1947.
Da quel momento a pagare fu lo Stato italiano, stornando i fondi dai
30 miliardi dovuti alla Francia per le riparazioni di guerra. Molti
problemi nacquero dal fatto che le donne, oltre all’indennizzo,
chiesero anche la pensione come vittime civili di guerra e che per
legge i due benefici non erano cumulabili. Ne scaturì un groviglio
di questioni burocratiche, ritardi, lamentele. A organizzare le
proteste furono soprattutto le comuniste dell’Udi. Nel 1951
un’affollatissima assemblea di donne in un cinema di Pontecorvo
affrontò la questione delle marocchinate, provocando un infuocato
dibattito parlamentare. Il Pci, in piena guerra fredda, si fece
paladino del nostro onore nazionale; nel 1966, in un clima politico
radicalmente diverso, toccò al monarchico Alfredo Covelli
risollevare la questione dei 60 mila stupri. Nel 1993 su quegli
eventi è tornato Tahar Ben Jelloun, (Gloria Chianese, Rappresaglie
naziste, saccheggi e violenze alleate nel Sud, in Italia
contemporanea, n.202, 1996).
Ma, indipendentemente dalle ragioni dell’«uso pubblico della
storia», in tutta quella vicenda restano interrogativi pesanti e
angosciosi. Ammettere di essere stata stuprata è per una donna
un’esperienza devastante. Eppure furono in 60 mila a farlo. La
spiegazione di Notin è raggelante. Su quegli stupri furono messe in
giro molte «voci» interessate: dalle autorità francesi in Marocco
che volevano sollecitare un rapido rientro delle truppe a casa;
dalla Santa Sede che ingigantiva le dimensioni del pericolo
islamico; dai tedeschi per spaventare le popolazioni e per
nascondere i propri massacri. Per il resto, la colpa fu in parte
della rilassatezza dei costumi delle donne italiane, in parte delle
abitudini tribali dei marocchini.
Per parte nostra, solo una constatazione. Nei paesi colpiti spesso
furono i sindaci a raccogliere le richieste di indennizzo e,
nell’interesse della comunità, si arrivò a dichiarare la
violenza anche quando non era stata subita. Il fatto è che la
miseria travolse anche il pudore e le 60 mila marocchinate furono
costrette a scegliere lo scandalo e la vergogna di uno stupro
«falso» per ottenere i soldi «veri» che servivano alle loro
famiglie e alla loro comunità.
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Il libro cui accenna Daria
Frezza nelle pagine precedenti, di Jean Christophe Notin, La
campagne d’Italie - Les victoires oubliées de la France,
1943-1945, riapre il dibattito sulla questione delle
“marocchinate” nostrane. È un tentativo di sottrarsi
alle proprie responsabilità morali da parte dei Francesi di
oggi riguardo ai misfatti delle truppe di colore in Italia
nella seconda guerra mondiale?
Diamo la parola a Giovanni De Luna che entra nel dibattito
con un articolo apparso su LA STAMPA del 25 novembre scorso,
sperando che altri facciano altrettanto: il nostro spazio è
a disposizione. |
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