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La vendita all’asta dei mulini di
Cassino confiscati all’abbazia di Montecassino
di
Luigi Serra
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Prima
dell’avvento della tecnologia moderna, che fa grande impiego dei
motori elettrici, la forza motrice per il movimento delle macchine era
data, specialmente nel Cassinate e nelle zone limitrofe, dai corsi
d’acqua, lungo i quali venivano ubicati i vari opifici, compresi i
mulini. Questa forza naturale, non trasferibile nello spazio, ha
portato ad un sviluppo economico lungo il corso dei fiumi, si vedano
per tutte le industrie sorte nel tempo ad Isola del Liri. Specialmente
i mulini, che richiedono una forza motrice limitata rispetto alle
grandi industrie, sono stati localizzati, anche per servire meglio la
popolazione sparsa sul territorio, sui ruscelli e nei luoghi più
impervi, che in alcuni casi potevano essere raggiunti solo dai muli o
addirittura esclusivamente dalle persone a piedi, che trasportavano i
cereali da macinare sulle spalle. Uno di questi casi esisteva a
Sant’Andrea del Garigliano, dove un mulino era stato costruito in
uno stretto vallone alle spalle del centro abitato, lungo un piccolo
corso d’acqua.
Questa situazione, oggi del tutto scomparsa, nel Cassinate è rimasta
vitale fin dopo la seconda guerra mondiale, con lunghe attese e
spostamenti di diversi chilometri per i contadini residenti in posti
dove i mulini non c’erano. La conduzione del mulino dava al mugnaio,
proprietario o affittuario che fosse dell’opificio, una certa
agiatezza.
Anche l’Abbazia di Montecassino aveva i propri mulini nei suoi
territori, generalmente datti in affitto. Dai registri contabili
conservati nell’Archivio dell’Abbazia emerge che verso la metà
del 1500, quando la rifioritura anche economica del monastero era
ormai consolidata, i monaci avevano 4 mulini in Cassino, più mulini
– anche se non è dato conoscerne il numero – a Sant’Elia e San
Giorgio, uno a Piumarola, al quale nel 1581 se ne aggiungerà un
altro, uno a Santa’Angelo, ecc. Diversi erano anche mulini posseduti
negli altri territori, come: Cocuruzzo, Cetraro, San Pietro Avellana,
ecc.
Generalmente i fitti erano stabiliti in tomoli di grano per cui,
contrariamente a quanto avviene con la moneta – il cui potere
d’acquisto varia nel tempo per effetto dell’inflazione – i dati
sono più facilmente confrontabili. Però, quando questo abbraccia
diversi secoli, il confronto diventa ugualmente alquanto incerto a
causa della consistenza dei mulini – soggetti a potenziamento, a
decadenza, ecc. – ed ai contratti di affitto che, al momento del
rinnovo, portavano spesso ad una forte variazione del fitto, a volte
in aumento ed altre in diminuzione. Comunque i 4 mulini di Cassino nel
1540 rendevano annualmente tomoli 1.215 di grano e nel 1567 tomoli
1.110; erano quelli che rendevano di più, seguiti da quelli di San
Giorgio1.
Nel 1567 i quattro mulini di Cassino erano tutti affittati a
Bartolomeo Vicalvi di San Germano e Antonio di Fabiano da Vallerotonda,
che rispondevano in solido dei fitti dovuti al monastero in quanto,
almeno di fatto, erano in società.
Nel 1806 i Francesi occuparono il Regno di Napoli, abolirono il
feudalesimo, soppressero gli ordini religiosi e ne confiscarono i
beni. Anche Montecassino venne coinvolto dal ciclone e i suoi beni
furono venduti all’asta dal governo, fra questi anche i mulini che
il monastero aveva in Cassino.
I due mulini che erano fittati a Luigi Bologna per 1.400 tomoli di
grano – pari a 2.800 ducati – vennero messi all’asta il 28
dicembre 1807; l’asta, partita da un prezzo base di 1.400 ducati, si
concluse con l’aggiudicazione a Carlo De Filippis per 70.000
ducati.
Nel manifesto che annunciava l’asta fu indicata una rendita di 1.400
ducati, poi riconosciuta errata, dove si scambiò la quantità di
grano (tomoli), prevista nel contratto di fitto, con il relativo
valore (ducati). Ma, a meno che non sia stata una cosa voluta, si fece
confusione anche tra la rendita annua dei due mulini ed il loro valore
capitale, dove, per ogni bene, il secondo supera sempre, e di gran
lunga, la rendita.
L’aggiudicazione venne chiusa allo spegnimento della terza candela
ed al migliore offerente. Le altre condizioni prevedevano che il
pagamento, da farsi con titoli del debito pubblico, sarebbe avvenuto
entro 6 mesi con rate mensili uguali: la prima rata da versare subito
e le altre da garantire dietro il rilascio di cambiali. Se
l’aggiudicatario non avesse pagato tre rate, oppure solo quella
iniziale, o ancora non avesse consegnato le cambiali a garanzia delle
successive, il demanio avrebbe venduto, in un’altra asta, i mulini
“a suo danno e rischio”2; se fosse stato moroso di due rate i
mulini sarebbero stati messi sotto sequestro fino al pagamento di
quanto scaduto; se la morosità avesse riguardato una solo rata,
diversa da quella iniziale, si sarebbe passato all’azione esecutiva
con la cambiale scaduta.
Il 12 febbraio 1808 il De Filippis, ancora prima di perfezionare
l’acquisto con il demanio, cedette i due mulini a Palmerino monaco
di Pignataro Interamna – allora chiamata Pignataro di San Germano
– il quale chiese ed ottenne dalla direzione del demanio che venisse
apprestata una planimetria dei mulini ed accuratamente precisati tutti
i diritti connessi: descrizione degli stessi, corso del fiume, canali,
costruzioni, ecc. La direzione del demanio mandò da Napoli il proprio
architetto Luigi Gasse che in pochissimi giorni, con l’ausilio del
capo contabile della ricevitoria del distretto residente in Arpino e
la presenza del compratore, procedette a tutti i rilievi del
caso3.
Il primo mulino, chiamato della Porta degli Abruzzi, si trovava nei
pressi del convento di San Domenico (presso l’attuale carcere
giudiziario) ed era alimentato dalle acque del fiume Majuri, che poi
proseguendo per un canale, arrivavano anche al secondo mulino; le
acque del fiume venivano prelevate solo in parte attraverso un
portellone. Dal portellone partiva un canale artificiale formato da un
muro verso levante, mentre l’altra sponda era costituita dalla
strada per Caira, che scorreva, del resto come oggi, ad una quota
superiore a quella dell’acqua. Dalla parte del muro si vedevano
ancora i resti di un altro muro, costruito in precedenza e poi
crollato, e terminante con i merli come se fosse un castello.
Spesso i muri dei canali crollavano e venivano subito riedificati,
magari riconoscendo all’affittuario un abbuono per i giorni in cui
il mulino restava fermo. A volte, per far arrivare subito l’acqua al
mulino, al fine di riprendere al più presto la macinazione, si
costruiva una palizzata provvisoria, per proceder poi con calma alla
ricostruzione del muro vero e proprio; anche lungo questo canale
c’era una palizzata provvisoria di circa 85 palmi, come c’era uno
spiazzo dove accumulare il limo di espurgo.
Fino ad una cinquantina di anni fa l’operazione di espurgo dei
canali (forme) e degli imbotti dei mulini era una cosa abituale che
gli interessati compivano con una certa frequenza.
Più a valle il canale aveva i muri da ambo i lati ed esisteva anche
un secondo canale di riserva, per l’accumulo dell’acqua da
utilizzare quando scarseggiava quella del fiume: era un modo per avere
una certa continuità nella macinazione4.
Il fabbricato del mulino era a forma di parallelogramma, costituito
sicuramente del solo piano terreno e vi si poteva accedere da due
strade diverse; c’erano due coppie di macine, una per la molitura
del grano e l’altra per quella degli altri cereali. Ciò, oltre ad
accelerare la lavorazione mettendo in moto ambedue le macchine, se
l’acqua era sufficiente ad azionarle, evitava che dopo la
macinazione degli altri cereali, passando a quella del grano, la
farina contenesse residui dei primi; a meno che, con l’impiego di
tempo e fatica, non si sollevasse la macina superiore per ripulire
quella inferiore dai residui. E l’operazione si sarebbe dovuta
compiere più volte al giorno.
La relazione ci offre una descrizione abbastanza dettagliata, con
l’indicazione dei proprietari dei terreni ubicati ai lati del
canale, l’esistenza di ponti e se erano in muratura oppure di
tavole, se erano caduti, del numero degli archi, come quello presso il
Palazzo Corte che ne aveva due, ecc. L’ingresso a questo palazzo
storico allora era senza portone e nei pressi c’era un portello, che
consentiva la deviazione di una parte dell’acqua per azionare un
frantoio adibito alla molitura delle olive.
Dopo aver costeggiato l’osteria Vertechi, il canale giungeva al
mulino di Porta Napoli, che aveva ugualmente due coppie di macine, con
le stesse funzioni del primo. La costruzione era su due piani: al
piano terra c’erano due locali, uno per la sede del mulino e
l’altro ad uso stalla; al piano superiore, dove si accedeva con uno
scalone in legno – ma c’era anche una scaletta in pietra –
c’erano ugualmente due camere con il focolare ed il forno per il
pane.
Tutta la rete dei canali a servizio dei due mulini, che a volte si
dividevano in due rami per riunificarsi dopo, si aggirava sui 3.200
palmi di lunghezza, pari a circa 850 metri odierni.
Allegata all’atto notarile originale dovrebbe trovarsi anche la
planimetria che, invece, manca nella copia delle documentazione fatta
il 21 settembre 1906, quando non c’erano macchine copiatrici e le
copie venivano fatte a mano da appositi amanuensi5.
Versata la prima rata il 14 marzo 1808, il giorno 27 dello stesso mese
Palmerino Monaco venne immesso nel possesso dei mulini dal ricevitore
del demanio per il distretto di Sora – di nome Manente – ma
residente in Arpino, il quale inviò al signor Torre di Cassino un
bando, oggi diremmo manifesto, da affiggersi in città, in modo che
tutti, a cominciare dall’affittuario dei mulini, venissero a
conoscenza del nuovo possessore.
Seguirono gli altri versamenti, fino al completo pagamento del prezzo
dei due opifici secondo il seguente prospetto
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Date |
Importi |
14 marzo 1808 |
23.350,00 |
13 giugno |
23.325,00 |
26 agosto |
11.700,00 |
13 Settembre |
4.650,00 |
16
Settembre |
1.100,00 |
21
Settembre |
2.000,00 |
23
Settembre |
1.550,00 |
1 ottobre |
575,00 |
12 ottobre |
1.325,00 |
10 gennaio |
1809 425,00 |
30 gennaio |
0,50 |
Totale |
0.000,50 |
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Da rilevare l’andamento irregolare dei pagamenti, sia per quanto riguarda le scadenze che gli importi; il saldo del debito andò ben oltre la scadenza, prevista in sei mesi. Tutti i versamenti furono eseguiti con titoli del debito pubblico, espressamente richiesti dalla legge, salvo i 50 centesimi finali, corrisposti con una polizza del “Banco di Corte” e forse da riferire alle spese. Il pagamento dei beni confiscati con titoli del debito pubblico avvenne anche nel 1866, quando vennero soppressi di nuovo gli enti religiosi ed i loro beni venduti all’asta. Lo Stato ha sempre urgente bisogno di incassare in moneta sonante quello che prevede di conseguire con la vendita, che abitualmente richiede diverso tempo e, per essere completata, anche diversi decenni. Infatti il governo francese nel Regno di Napoli emise già nel 1807 un prestito forzoso di 1.200.000 ducati, “seguito subito da un altro prestito di 1.470.000 contratto in Olanda”6.
Comunque, saldati i pagamenti, il 2 febbraio 1809 si procedette alla stipulazione dell’atto notarile in Napoli, nella sede dell’intendenza di finanza, dinanzi al notaio Emmanuele Caputo, dove il compratore Palmerino Monaco fu rappresentato dal figlio Giuseppe Monaco, residente in Napoli e qualificatosi dottore (probabilmente medico), che sottoscrisse l’atto in rappresentanza del padre. Alla stipula presero parte anche tre testimoni, i rappresentanti del governo ed un giudice ai contratti.
I due mulini, con tutte le pertinenze costituite soprattutto dai canali, vennero venduti liberi e franchi da ogni peso, ipoteca, ecc., dove fra i primi vennero esclusi espressamente “i legati per messe, per altre opere pie, ecc.”
In questo atto di vendita c’è anche da rilevare che all’asta, alla quale Palmerino Monaco forse non prese neanche parte, i mulini furono aggiudicati a Carlo De Filippis il quale, però, non versò nulla di suo e solo dopo un mese e mezzo li cedette a Palmerino Monaco, che ne pagò l’intero prezzo allo Stato. Probabilmente il De Filippis partecipò all’asta con il proposito di trasferire ad altri quanto si sarebbe aggiudicato, oppure, essendo sorte per lui delle difficoltà, per non incorrere nei rischi previsti per il compratore inadempiente che non avesse versato nemmeno la prima rata (vendita in suo danno), preferì trovarsi un compratore che avesse adempiuto al contratto. Nulla è dato sapere, perché nell’atto pubblico mai sarebbe stato scritto quanto intercorso tra Carlo De Filippis e Palmerino Monaco.
Quanto a quest’ultimo, incidentalmente c’è da aggiungere che, dopo il Congresso di Vienna e la fine dell’era napoleonica, con il conseguente ritorno ai monaci del loro patrimonio, egli entrò in rapporta di affari con l’Abbazia. Ed alla Masseria Tartari, ricadente nel territorio del castello di Piumarola, esiste ancora una casa, salvatasi dall’ultima guerra, nel cui atrio del secondo piano è murata una statuina, che sembra un pupazzo, e che gli abitanti del posto attribuiscono proprio a Palmerimo Monaco, il quale dovrebbe essere scomparso nel 1825, in quanto dall’anno seguente il conto appare intestato ai suoi eredi.
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Persone che appaiono nell’atto e negli allegati
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Onorato Gaetani, Duca di Laurenzana, di Napoli, consigliere di Stato ed intendente della provincia di Napoli: è presente alla stipula dell’atto per conto del Fisco;
Nicola Gaetani, padre del suddetto: viene solo citato per la migliore identificazione del figlio;
Francesco Ruggì d’Aragona, di Napoli, direttore del demanio per la provincia di Napoli: interviene alla stipula dell’atto per conto del fisco;
Matteo Ruggì, marchese, padre del suddetto: viene solo citato per la migliore identificazione del figlio;
Giuseppe Monaco, dottore, di Pignataro di San Germano: interviene alla stipula dell’atto in nome e per conto del padre;
Palmerino Monaco, di Pignataro di San Germano: compratore dei mulini;
Giovanni Monaco, padre del suddetto: viene citato solo per la identificazione del figlio;
Luigi Bologna: affittuario dei due mulini;
Carlo De Filippis: aggiudicatario dell’asta e cessionario dei mulini a Palmerino Monaco.
Luigi Gasse, di Napoli: architetto dell’amministrazione generale del demanio;
Benedetto Manente: direttore distrettuale del demanio;
Francesco Saverio Brunone: testimone nella stipula dell’atto;
Francesco Pascale: testimone nella stipula dell’atto;
Antonio Caputo: testimone ed estensore dell’atto per conto del notaio;
Giuseppe Pucci, di Napoli: giudice ai contratti;
Emmanuele Caputo: notaio;
Luigi Palumbo: conservatore dell’archivio notarile di Napoli, per la firma della copia fatta il 31 gennaio 1906;
Vincenzo Romanelli: attuario nella copia dell’estratto dell’atto pubblico ?;
Raimondo De Gennaro: intendente della provincia di Napoli; è citato nel verbale di aggiudicazione dell’asta;
Augusto Turgis: segretario generale nel verbale dell’asta;
Signor Torre di San Germano: attacchino del bando di consegna dei mulini a Palmerino Monaco;
La Mura: funzionario del ministero delle finanze che attesta il versamento della somma di 70.000 ducati;
Giuseppe Gagna: come sopra;
Nicola Riccardi: capo contabile della ricevitoria del distretto di Sora con ufficio in Arpino;
Vertechi: proprietario di terreni lungo il canale dei mulini;
Riccardi: altro proprietario di terreni lungo il canale,
Vertechi: proprietari di una osteria, senza specificare se sono gli stessi di cui sopra.
Alfonso Petrone: Archivista dell’Archivio Notarile di Napoli che firma per il conservatore;
Giuseppe Tisci: vice cancelliere del Tribunale di Napoli che legalizza la firma di Alfonso Petrone.
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1 Archivio di Montecassino, Libri mastro segnati “I 1539-41”e “1567 Y”.
2 La vendita in danno comporta la rivendicazione dall’inadempiente del minor ricavo rispetto a quanto da lui dovuto, ed il versamento allo stesso dell’eventuale maggior ricavo dalla nuova asta.
3 Da notare la celerità dell’espletamento della pratica, specialmente se si fa riferimento ai mezzi di comunicazione di quasi due secoli fa. L’architetto ricevette l’incarico il 3 dicembre 1808, si recò a Cassino ed il 14 dello stesso mese scrisse per l’assistenza al ricevitore del distretto di Sora, con ufficio in Arpino; il 16 dicembre iniziò i rilievi, che portò a termine entro tre giorni, per cui il 18 dicembre 1808 tutto era completo. Dai documenti consultati non è dato sapere la data della relazione che, comunque, deve essere stata compilata subito dopo.
4 Specialmente nei mesi estivi l’acqua scarseggiava sia perché la portata delle sorgenti diminuisce, sia perché era richiesta anche dall’irrigazione dei campi. L’accumulo avveniva generalmente di notte, oppure sospendendo di giorno la macinazione fino ad avere un accumulo sufficiente a muovere i macchinari.
5 Sono grato ad Antonio Maria Vallerotonda per la copia di questo atto.
6 Luigi Serra, Storia del debito pubblico italiano, pag.52.
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